Il Brandy e l’atmosfera
Scritto da Pino De Luca | Pubblicato in distillati
Italia. Italia. Così ricca e opulenta da tenere vivo il mondo intero e così sfortunata e sciocca da esser preda di chiunque.
Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello!
scriveva il sommo poeta.
Ma v’è stato un tempo diverso, un tempo nel quale quando si avvicinava Natale le strade brulicavano di sorrisi e gente in festa, un tempo nel quale il male e il bene avevano forme differenti e il manicheismo e il talebanesimo, il fanatismo e la malvagità persecutoria ancora non erano allignate. Era il tempo nel quale un gadget natalizio era il “posacenere da comodino per signora”, testimonianza che anche le signore potevano concedersi una sigaretta a letto.
E periodo nel quale alcune etichette di brandy imperversavano sui Caroselli: Stock 84, René Briand extra, Oro Pilla, Stravecchio Branca e LEI, la regina, Vecchia Romagna Etichetta Nera, il brandy che crea una atmosfera (Sorbolik).
Ecco, il brandy italiano è una di quelle ricchezze delle quali siamo stati capaci di privarci pur disponendo di materia prima di qualità altissima e di storia ed esperienza che potrebbero posizionarci ai livelli più alti della qualità del distillato.
Bisogna andare al 1773, in Sicilia, per avere le origini del Brandy.
John Woodhouse pensò di arricchire i già forti vini siciliani per ottenere una specie di Sherry, molto apprezzato dal popolo anglosassone che, già allora, soffriva di notevole secchezza alla gola. Arricchì il Marsala con della acquavite di sua produzione e ottenne il “Marsala alla maniera del Madeira”, si chiamava Perpetuum. Altri inglesi (Benjamin Ingham nel 1806 e, nel 1812 suo nipote, Joseph Wittaker) incrementarono la produzione di distillato di vino per arricchire il Marsala.
Nel 1783 le cronache ricordano che un sisma spaventoso devastò l’area tra Messina e Reggio Calabria. La distruzione portò Vincenzo Florio, imprenditore di origini calabresi, a stabilirsi in Sicilia. Appassionato di automobilismo, fondò, nel 1832, l’azienda omonima e oltre al notissimo Marsala, produsse il primo Brandy da uve locali e, probabilmente, dal catarratto che, come il trebbiano toscano, produce grandi quantità di uve a basso grado alcolico e altissima acidità. Grandi distillati ma scarsa esperienza di affinamento.
E dove, se non i Francia, poteva aversi questo know how? Jean Bouton, proveniente da una famiglia di distillatori della Charente, dovette lasciare la Francia per ragioni politiche e, data la sua esperienza, scelse l’Italia come meta: Bologna.
Era il 1820, Jean Bouton e Giacomo Rovinazzi fondarono la Gio. Buton s.p.a facendo fortuna con la Coca Boliviana (allora raccomadata da medici e papi). Jean Bouton divenne rapidamente Giovanni Buton. Nella carta delle produzioni svettavano: Amaro Felsina, la Crema Cacao, il Cognac Buton oltre che la Coca Boliviana summenzionata. Nel novecento, dopo il successo alla Esposizione Universale di Parigi, la Gio. Buton fu rilevata dal marchese Filippo Sassoli dé Bianchi e completamente rifondata.
Due passi dalla Romagna. Area ideale per la materia prima perfetta per la distillazione: trebbiano di Romagna, di fatto la versione italiana dell’Ugni Blanc, il vitigno principe dei distillati di scuola francese (cfr il Cognac).
Quello che era nato come Cognac Vieux, con l’avvento del fascismo e della italica denominazione, divenne nel 1939 Vecchia Romagna.
Dopo la Guerra i Francesi posero il vincolo di Cognac solo ai distillati della Charente e, dunque, Vecchia Romagna rimase tale.
Provatelo a Natale, poco, ma non ha nulla da invidiare a prodotti d’oltralpe. Io preferisco lo Stravecchio Branca, ma magari ne parliamo un’altra volta.