La cucina degli Dei
Scritto da Fortunato Francesco | Pubblicato in arte
In realtà non voglio raccontarla questa storia. Si, non penso che vi racconterò la mia storia. Forse vi racconterò dei frammenti…dei flash. D’altronde non saprei da dove cominciare. Potrei finalmente dire la verità a voi e soprattutto a me stessa.
A questo punto sarebbe opportuno presentarmi.
Mi chiamo Lena, sono chef, mi hanno appena dato la terza stella, qualcuno sostiene che sono la migliore al mondo e……. particolare non secondario, sento le voci.
Qualcuno direbbe che leggo nel pensiero. Non è proprio così.
In realtà, ho delle sensazioni, vedo immagini, flash. Qualche volta distinguo vere e proprie frasi ma solo quando la persona a cui sono vicino mi attira o mi interessa molto. Per il resto è un accavallarsi di rumori, colori che mi comunicano informazioni sull’interlocutore di turno.
Quando sono in sintonia con il cervello degli altri mi sembra di essere un disco rotto.
Sento una frase e subito dopo la riascolto ripetuta dalla sua bocca. Per non parlare di quando cammino per i fatti miei e sento un insieme di voci indistinte. Sembra di vivere in un condominio con i muri troppo sottili.
Devo dire che non è proprio un divertimento….anzi tante volte diventa una fatica immane sopportare le stupidaggini che passano per la testa della gente.
Ma tanto non c’è rimedio, sono nata così.
Da quanto mi risulta non esistono altre persone come me. Ho indagato. Sembra che nella famiglia di mio padre esistesse una certa Maria, antenata italiana, che fu condannata per stregoneria. Non so quanto ci fosse di vero in questa storia, ma è l’unico indizio che ho.
Qualcuno, non ricordo chi, mi ha detto che leggo l’anima delle persone.
Tutte.
O quasi.
Credo che sia la definizione più adatta a descrivere questa mia qualità, se si può definire tale.
In realtà succede qualcosa di simile, ma è una sensazione difficile da descrivere. Alcune volte vedo i contorni delle persone diventare più chiari, più definiti. Riesco a staccarli dal contesto in cui si trovano. E’ come metterli sotto il vetrino e studiarli sotto la lente di un microscopio. Le espressioni, i colori, il calore che emanano diventano per me, per un attimo, indizi quasi scientifici, prove attraverso le quali riesco a definire l’essenza ultima dell’uomo o della donna che mi trovo di fronte.
Sono nata in Brasile. Ma è stato solo un caso. Mio padre era un italiano nato al Sud.
Mi piace il piacere.
Ecco perchè faccio la chef.
Mia madre in casa non c’era mai.
Mio padre mi parlava di cibi favolosi, di tavolate immense, di parenti numerosi e insaziabili. Fin da piccola ero attratta irresistibilmente dal luccichio della cucina, dall’acciaio degli utensili, delle pentole e delle padelle.
Ma l’episodio che mi ha cambiato la vita è capitato quando avevo intorno ai dodici anni. Camminavo per le strade del centro del paese, quando la mia attenzione fu attratta dai colori di una vetrina di un negozio aperto da poco. All’entrata c’era una donna non giovanissima. Era francese di madre marocchina, si chiamava Clotilde e si intuiva che era stata, ed ancora lo era, bellissima da giovane.
La sua parte mediorientale era rappresentata dagli occhi scuri, espressivi ed inquietanti.
“Che bimba meravigliosa sei”.
Mi disse.
Cosa che io già sapevo….naturalmente.
Guardai dentro.
Era un negozio di frutta e verdura.
Ma non solo.
C’erano spezie, vasetti con marmellate, mieli, primizie e specialità da tutto il mondo.
Entrai.
Lei mi parlava con voce profonda e suadente.
Io non ascoltavo.
Piramidi colorate.
Profumi incredibili.
Emozioni a catena.
Fu li che successe.
La mente si ribellò alla mia volontà e divenne una cosa a sé.
Mi spaventai.
Cominciò a mettere insieme gli ingredienti più disparati, creando combinazioni infinite tutte perfette nella loro originalità.
Così, da sola.
Io sapevo che ogni insieme avrebbe dato come risultato qualcosa di sublime.
Non so spiegare perchè ma ne ero sicura.
Mio padre giocava.
Mia madre lavorava tutto il giorno.
Gli unici momenti in cui la vedevo felice era quando mio padre cadeva nei suoi periodici periodi di depressione. Si chiudeva in casa, incapace di affrontare i suoi fallimenti, le sue delusioni inevitabili e si rifugiava nella sua unica sicurezza. La sua ancora di salvezza. E lei ne era felice. Si illudeva che curandolo, l’avrebbe trattenuto, in qualche modo cambiato.
In quei giorni, la casa riprendeva i colori vivaci di quando ero piccola. Comparivano vasi con fiori freschi. La cucina si riempiva di profumi. Le finestre venivano aperte. Entrava l’aria.
Mio padre si sveglia e scendeva dopo aver fatto la doccia. La baciava. Lei era felice. Tornava ad essere bella. Mi diceva “vedrai questa volta è diverso, vedrai è cambiato veramente, lo sento.”
Cosa che io già sapevo….naturalmente.
Cercavo in quei momenti, mentre li vedevo passeggiare mano nella mano, di concentrarmi ed usare tutto il mio potere per riuscire a fermare quegli attimi. Sognavo vacanze normali. Loro che facevano l’amore. Mio padre che tornava a casa da un lavoro normale. Lei che l’aspettava. Dialoghi normali di gente normale.
Ma non fu possibile. Lui non cambiava mai
Sempre, puntualmente, inevitabilmente si riprendeva e spariva.
Una volta era quella ballerina arrivata in paese con la compagnia teatrale, un’altra era quella partita a poker importantissima che ci avrebbe cambiato la vita se tutto fosse andato bene…ma non andava mai bene.
Finchè lei, dopo l’ennesima delusione, una mattina uscendo con una borsa stranamente piena mi disse :”Vado a lavorare, fai la brava, ci vediamo stasera.
Non ci vedemmo mai più.
Cosa che io già sapevo….naturalmente.
Fui felice per lei.
Era l’unico modo che aveva per salvarsi.
So che abita in una piccola città a sud del paese.
Ha avuto due altri figli con un uomo che ha conosciuto in una casa dove aveva trovato lavoro.
Bambini che non sentono le voci.
Ed un uomo che la protegge.
Non mi ha mai cercata.
Nemmeno io.
Qualche volta mi manca.
Rimasi sola con lui.
Fu un brutto periodo.
I momenti di depressione diventavano sempre più ricorrenti e lunghi.
Aveva perso la sua ancora. Quella che lo teneva legato al pianeta Terra. Il suo unico punto fermo.
Certo c’ero io. Sua figlia. Sua madre, in realtà.
Fu molto duro anche per me. In casa mancava tutto, non c’erano mai abbastanza soldi. Fu in quei giorni che decisi. Dovevo trasformare la mia passione per la cucina in qualcosa che mi permettesse di guadagnare soldi per vivere.
Alle soglie dei sedici anni entravo nel ristorante italiano del mio paese a chiedere lavoro.
Antonio era il cuoco ed anche proprietario di quel locale.
Era di una città del Nord dell’Italia: Vicenza mi pare si chiamasse.
Amava l’opera, cantava con voce tonante mentre cucinava.
Era grosso, un gigante con la faccia cattiva ed il pizzetto.
In realtà dopo il primo impatto abbastanza traumatico si dimostrò una bravissima persona.
Conosceva tutto sulla cucina italiana ed è stato un ottimo maestro. Paziente e disponibile.
Sua moglie Teresa era meridionale. Non avevano figli. Mi adottarono. Ed io felice di portare una ventata di allegria che nella loro vita mancava da un po’.
Il loro rapporto era speciale. Anche quando erano lontani in una stanza sembravano vicini. Il loro era un mondo a parte fatto di sguardi. Le parole inutili propaggini di rumore.
Si erano conosciuti giovanissimi. Lei era arrivata a Vicenza. Aveva trovato lavoro nel ristorante dove lui era un giovane aiuto-chef.
Teresa lavava i piatti e faceva le pulizie.
Antonio era carino e sempre allegro.
Lei aveva gli occhi scuri e sembrava sempre sul punto di scoppiare a piangere.
Antonio notò il suo irresistibile modo di abbassare lo sguardo quando chiedeva qualcosa.
Una sera Antonio stava infornando delle lasagne che sarebbero state servite l’indomani. Il profumo di festa riempiva la cucina e la malinconica anima di Teresa che silenziosa lavava i piatti.
Le mancava la sua terra, gli amici, quel ragazzo che aveva amato di un amore fatto di sguardi furtivi rubati alla messa della Domenica. Le mancava persino suo padre, quel padre con cui purtroppo aveva avuto sempre un pessimo rapporto.
Anche per quello era andata via.
Antonio la guardava in continuazione durante il lavoro. Lei se ne accorgeva e ne era lusingata.
Ogni tanto, per caso o forse no, si sfioravano. Talvolta lui le sorrideva. E lei abbassava gli occhi.
La sera delle lasagne Teresa ruppe un’intera pila di piatti. Il proprietario del locale fu molto duro.
Teresa scappò fuori dall’uscita secondaria del locale, in un vicolo dove c’erano pile di cassette con bottiglie di acqua vuote e bidoni dell’immondizia. Dopo qualche minuto Antonio si fece coraggio e la raggiunse. La trovò seduta su una scala che portava alla stanza dove lei dormiva. Accarezzava un gattino e piangeva.
Antonio si avvicinò. Le aveva portato un piatto con la lasagna appena sfornata.
“Assaggia, ti tirerà su” le disse.
Lei ne prese un po’. L’assaggiò. La morbida consistenza della sfoglia la protesse solo per un attimo dalla calda acidità del pomodoro e dalla dolcezza della besciamella che nonostante fosse rovente era buonissima.
Antonio era il re della besciamella. L’aveva sentito dire dalle cameriere che erano tutte innamorate di lui.
Lui le chiese cosa avesse, lei le raccontò della sua povertà. Avrebbe voluto studiare ma i pochi soldi che giravano in casa erano destinati a suo fratello che doveva studiare da ragioniere. Lei invece era destinata ad un lontano cugino del padre che aveva fatto fortuna all’estero. Era destinata a sposare un vecchio. Resistette finchè il male che la sua terra le stava facendo fu superiore al male che avrebbe dovuto sopportare scappando via… via dalle sicurezze, dalla protezione, da una vita già scritta….scritta male ma scritta.
“Adesso ho tante pagine bianche davanti a me, tante pagine da scrivere, ma non so da dove cominciare. Mi sento persa, sola, vorrei solo scomparire”.
Antonio l’accarezzò e pensò “ Lasciami scomparire insieme a te”.
Provò ad avvicinarsi, lei non indietreggiò.
Dopo quel bacio cominciarono a scrivere insieme.
Le pagine bianche si riempirono in fretta di parole bellissime.
Antonio era uno degli chef più talentuosi della zona. Aver trovato l’amore moltiplicò a dismisura la sua voglia di arrivare in alto.
Insieme lasciarono il ristorante. Insieme girarono l’Europa crescendo professionalmente e come coppia. Insieme decisero di sposarsi.
La reputazione di Antonio cresceva velocemente fra gli addetti ai lavori. Teresa era la sua fonte di ispirazione. La svegliava di notte per farle assaggiare la sua ultima creazione. La imboccava e poi facevano l’amore. Sempre. In continuazione.
Insieme girarono il mondo.
Insieme decisero di avere un bambino.
Che non veniva mai.
Quando finisce un amore?
Quando i silenzi diventano più lunghi delle parole?
Quando i progetti non emozionano più?
Quando bevi l’ultima tazza di caffè senza dividerla?
Teresa si era chiusa in sé stessa.
I momenti fra di loro, quelli veri, diventavano sempre più rari, nonostante vivessero fisicamente in simbiosi 24 ore al giorno.
Antonio era troppo preso dalla carriera per rendersene conto. O forse non volle.
Quando finalmente si accorsero che qualcosa si stava rompendo, che stavano per perdersi reagirono buttandosi nel loro ultimo progetto.
Arrivarono nel mio paese e rilevarono questo ristorante. Il loro ristorante finalmente.
Antonio sperava che questo l’avrebbe resa felice. E così fu. Tutto sembrò ritornare a posto, almeno apparentemente.
Il ristorante partì alla grande. Teresa aveva cominciato delle cure per favorire la maternità.
Diventò il suo incubo.
Il loro incubo.
Lui era soddisfatto. Gli piaceva il senso di avventura che aveva provato col trasferimento in un luogo così lontano.
Aveva 43 anni quando Teresa gli confessò il suo tradimento.
Per un attimo pensò di frantumarsi in mille pezzi.
Lei gli disse che lo amava e non voleva lasciarlo, né voleva che la lasciasse lui.
Aveva bisogno che lui sapesse.
Antonio no, avrebbe preferito non sapere. “Perchè hai voluto dirmelo….perchè” continuava a ripetersi dentro di lui.
La sua immaginazione si spense.
E fu forse questo a salvare la loro unione.
Sapeva tutto di lei: come beveva il caffè, da che parte si girava mentre dormiva, il suo modo di ridere, le sue canzoni.
La notte la passava con gli occhi sbarrati, disteso accanto a lei il più lontano possibile, continuando a pensare…a pensare.
La cucina aveva perso qualsiasi significato.
Aspettava qualcosa, un segnale che non arrivava mai.
Qualcosa che lo portasse via da quella casa, da quella donna, da quel dannato lavoro.
Antonio e Teresa rimasero lì distesi, notte dopo notte senza più sfiorarsi.
Il sole continuava a sorgere, le giornate continuavano a passare normalmente.
Finchè il tradimento di lei divenne un ricordo, una componente come tante altre che reggevano il loro rapporto. Del resto si può essere uno la stampella dell’altra. Nella vita si cambia. Antonio aveva visto che nella vita si cambia.
Viveva con un’altra donna.
Ma non è detto che non si cambi ancora ed ancora.
Ed Antonio aspettava che Teresa cambiasse ancora.
E fu che successe dopo qualche anno.
Antonio tornò a casa da una stancante giornata al ristorante. Teresa non ci andava più così spesso.
Si avvicinò alla porta della cucina da dove filtrava una lama di luce. Aprì un po’ di più la porta. Vide il profilo della moglie. Lavava il piatto che aveva ospitato la sua cena solitaria. Le si avvicinò piano da dietro come faceva spesso una volta.
La circondò con le sue possenti braccia.
Sapeva che lei in qualche modo l’avrebbe respinto come spesso faceva negli ultimi anni.
Ma non riusciva a resistere alla tentazione di farsi del male.
Quella volta non successe.
Lei si sentì a casa , si sentì fra le braccia del suo uomo, il suo unico uomo possibile.
Si appoggiò al corpo di lui, lasciandosi andare.
Antonio la baciò sul collo.
Lei si girò e appoggiò la testa al petto di lui.
“Finalmente sei tornato” gli disse.
“Si finalmente” rispose lui.
Il ristorante perse la sua centralità nella loro vita. Continuavano a gestirlo per vivere.
Antonio era rimasto comunque ferito da quegli anni bui e la sua vena creativa era andata a farsi benedire.
Gli bastava aver riavuto Teresa.
Ringraziava Dio ogni sera, e tutte le rarissime volte che lei gli donava di nuovo il suo corpo.
Non perse mai più la paura di perderla.
E fu in questa situazione che li incontrai.
Entrai subito in sintonia con Antonio.
Ed infatti la prima ricetta che mi insegnò fu una specie di rito di iniziazione.
Il ragù napoletano era il suo orgoglio.
Glielo aveva insegnato Teresa, ma lei stessa ammetteva che quello di suo marito non aveva eguali al mondo, nonostante a casa sua questa preparazione fosse una tradizione gelosamente conservata da generazioni.
Il ragù napoletano, al contrario di quello Bolognese, prevede non carni trite ma spezzate in maniera più o meno grande ed in alcuni casi involtini di carne detti braciole. Altra caratteristica peculiare sono i tempi di cottura che possono sfiorare anche le sei ore. Se si usa carne di bue è preferibile usare sia i quarti posteriori che anteriori, in modo che in parte si disfino arricchendo di sapore il pomodoro, ed invece le parti più nervose diventino morbide e facilmente mangiabili.
“Per fare questo piatto devi avere o, se non ne hai, devi prenderti del tempo. Quello che serve non quello che hai.” fu la prima cosa che mi disse, abbassandosi per prendere, da uno scorrevole in acciaio, una casseruola che mi sembrò enorme.
Naturalmente si possono usare anche parti meno nobili o carni di maiale. Deve essere un piatto né troppo costoso ma nemmeno economico.
La braciola, che non ha niente a vedere con la carne alla brace, è un discorso a parte.
La fetta di carne viene farcita con pecorino, pancetta, prezzemolo, un pizzico di noce moscata e volendo pinoli ed uva passa. La tradizione evita gli stuzzicadenti e la vuole arrotolata e legata con spago da arrosti.
Altro particolare a cui stare attenti è il condimento. L’ideale sarebbe la sugna, affermava Antonio, ma in mancanza dobbiamo “accontentarci” di olio extravergine cercando di averne uno di ottima qualità. Da evitare assolutamente il burro che non centra niente.
Per il soffritto, mi disse, si deve usare solo cipolla niente sedano né carote. Solo cipolla, tanta cipolla che alla fine si consumerà rendendo il sugo saporito e denso.
Ad un certo punto partì.
Prese i pezzi di carne e li mise nella casseruola. Li guardava attentamente e li fece rosolare ben bene su tutti i lati. Dopodichè aggiunse un mezzo cucchiaio di strutto che teneva celato in un frigo come se fosse un tesoro.
Poi aprì una bottiglia di vino rosso e sfumò dicendo “Non usare mai vino cattivo, sarebbe una pessima idea”.
Aspettò un bel po’ finchè il sugo non assunse un bellissimo ed invitante color marroncino. A questo punto aggiunse il resto del vino, alzando contemporaneamente la fiamma.
Poi prese del concentrato di pomodoro, lo sciolse in un po’ di acqua tiepida e lo verso nella casseruola insieme a due chili di pelati che aveva passato al mixer. Non appena il ragù raggiunse il bollore repentinamente abbassò la fiamma al minimo.
Ogni tanto aggiungeva dell’acqua.
Poi guardandomi serio aggiunse “il ragù non deve bollire deve pipiare come i fanghi della solfatara di Pozzuoli”.
Annuii, anche se non avevo capito niente di quello che aveva detto.
Sorrise forte intuendo la mia perplessità. A questo punto bisogna aspettare anche delle ore finchè il sugo non assume il colore scuro del palissandro.
Andammo in dispensa a scegliere la pasta dove mi disse che quella più adatta era quella con i buchi. Mi mise di fronte delle penne, rigatoni e una pasta lunga da spezzare con le mani: gli ziti. Scelsi questi ultimi. Lui sorrise annuendo. Ne fui orgogliosa.
Mise sale abbondante nella pentola con l’acqua che bolliva rabbiosa. Spezzò la pasta che risultò di lunghezze differenti. La calò nell’acqua. Dopo un quarto d’ora la scolò. E la rovesciò in una padella dove aveva messo un’abbondante parte del sugo. Saltò a lungo e ne mise tre pozioni in altrettanti piatti. Aggiunse dei pezzi di carne e una braciola a testa.
Fu una delle cose più buone che ho mai mangiato in vita mia. Fu così che entrai a far parte della confraternita del ragù e che cominciò la mia vita in cucina.
Avevo tanta voglia di lavorare. Assorbivo come una spugna tutto quello che potevo da Antonio e Teresa. Loro erano molto soddisfatti e sorpresi dalla velocità con cui diventavo una piccola chef. Rapidamente divenni talmente autonoma in cucina da diventare l’anima del locale.
La sera tornavo a casa distrutta, ma continuavo a provare ricette che avevo imparato.
Cucinavo per mio padre che, però, tornava sempre più di rado a casa.
Era entrato in un giro strano: giocava con soldi di altre persone, persone molto importanti.
Una sera era il mio giorno di riposo. Vennero a prenderlo con una lunga macchina nera con i vetri oscurati. Lui usci dalla sua camera vestito in maniera impeccabile. Passando per la cucina notai che si era profumato in maniera eccessiva per le sue abitudini. Ma era bello ed affascinante come al solito. Io bevevo caffè d’orzo appoggiata alla porta di casa. Ero vestita solo con un t-schirt bianca di due misure più grande che mi faceva da camicia da notte.
Uscì in fretta. Si fermò un attimo per salutarmi e baciarmi su una guancia. Non disse niente.
Io risposi con un cenno di saluto della testa. Sentii contemporaneamente il fruscio di un finestrino che abbassava. Ne apparve un viso importante. La barba riusciva solo in parte a smussarne gli spigoli.
Due occhi inquetanti mi squadrarono. Due lame di ghiaccio.
Rabbrividii.
Dimenticai abbastanza in fretta questo episodio, anche se non del tutto. Più che altro ero preoccupata per il mio vecchio.
Ma il lavoro mi entusiasmava.
La cucina di Antonio era l’unico posto al mondo, insieme al prato della quercia, dove stavo bene, dove non sentivo le voci.
Antonio e Teresa divennero in breve la mia seconda famiglia. In pochissimo tempo appresi tutte le tecniche di base. I fondi, le salse, il pesce, le carni, i risotti non ebbero per me più segreti.
Antonio si specchiava ed in me rivedeva il suo entusiasmo da giovane. E questo era una manna per lui, per il loro matrimonio spento. Fortunatamente un pò di fuoco covava ancora sotto la cenere.
A poco a poco vidi la distanza fra la sua cucina e la sala, regno di Teresa, che era diventata siderale, ridursi gradualmente. Lei sempre più spesso sedeva sul piano d’acciaio di fronte alla cucina a guardarci lavorare.
Certe volte si sentiva quasi esclusa.
“Sembrano padre e figlia, si assomigliano addirittura” pensava assorta al limite della gelosia.
Cosa che io già sapevo….naturalmente.
Io rispondevo mentalmente guardandola come una figlia fa con una madre.
Volevo assolutamente portarla nel nostro microcosmo.
La vidi lentamente rinascere. Vestirsi e truccarsi di nuovo. Vidi approfondirsi le scollature. La vidi di nuovo scherzare con Antonio, provocandolo con sguardi e sfioramenti falsamente involontari.
Lui le sorrideva dolcemente notando questi cambiamenti. Ma quasi involontariamente si ritraeva, quasi avesse paura di incoraggiarla, paura che fosse solo un’illusione passeggera.
Lei ne soffriva, ma capiva.
Lui aveva cercato con tutte le forze di cancellare il ricordo di lei a letto con quell’ uomo tanto più bello di lui.
Aveva tentato di ritrovare l’essenza di quella giovane ragazza dagli occhi tristi per la quale aveva di fatto cambiato la sua vita.
Ma non riusciva a fidarsi.
Non ruisciva a rompere quel muro che si era costruito intorno per difendersi.
Il problema era che, nonostante non riuscisse a immaginare la vita senza di lei, non riusciva nemmeno a immaginarla con lei. Viveva alla giornata, era in un limbo emotivo.
Io li leggevo in continuazione. Sapevo che la speranza c’era.
Erano diventati due rette parallele.
Ci voleva qualcosa o qualcuno che spostasse di qualche grado l’angolazione di uno dei due. Dopo sarebbe stato solo questione di tempo. Prima o poi si sarebbero di nuovo incrociati.
Intanto, per fortuna il ristorante aveva ripreso a lavorare come una volta.
I soldi non fanno la felicità. Ma non dover pensare al modo per pagare le bollette lascia spazio alla mente di occuparsi di altre cose.
Io cominciavo a guadagnare bene.
Avevo messo da parte un po’ di soldi.
Antonio mi lasciava sempre più spazio in cucina. Molte volte ero da sola.
Spesso aprivo il frigo.
Guardavo gli ingredienti a disposizione.
Li mettevo insieme nella mia mente.
Sapevo già in anticipo il gusto, il profumo o l’emozione che avrei generato.
Cominciai, col permesso di Antonio, ad introdurre piatti di mia invenzione.
Dovetti superare la diffidenza di Teresa e la normale gelosia del maestro che si vede superare dall’allieva e si scontra con una sorta di sensazione di inadeguatezza. Ma era una sana competizione, anche perchè io riconoscevo sempre tutti i suoi meriti.
Ma non riuscivo a limitarmi. Ero un pozzo di creatività.
Facevo un piatto e me ne venivano in mente altri due.
Una sera Antonio e Teresa erano usciti. Avevo pochi tavoli da servire. Rimasi sola dopo che i ragazzi avevano finito di pulire la cucina. Spensi le luci e mi avviai verso la porta.
Sull’uscio mi fermai.
Respirai.
Sentii un richiamo irresistibile.
Decisi che sarei stata io a provare a spostare di qualche grado l’angolazione di una delle due rette.
Sapevo di aver poco tempo. A breve sarebbero ritornati. Tornai indietro e riaccesi i fornelli.
Mi guardai intorno.
Patate.
Ne presi quattro o cinque. Le pelai e le taglia a cubetti piccoli. Le feci sbollentare in acqua. Presi del latte. Lo versai nel mixer con i cubetti di patate che, nel frattempo, avevano raggiunto la giusta consistenza. Versai il tutto in un pentolino. Alzai di poco la fiamma. Vidi il tutto addensarsi leggermente. Aggiunsi del burro.
Spensi.
Aggiunsi sale e un po’ di noce moscata.
Il profumo mi fece pizzicare leggermente il naso.
Volevo un composto denso ma fluido. Fu quello che ottenni.
Riandai verso il frigo.
Guardai dentro.
Polpo.
Seppia.
Gamberi, si gamberi.
Ne scelsi tre rosso fuoco ed alcuni piccoli calamari freschi.
Pulii i gamberi e i calamari li tagliai julienne molto sottili.
Presi una ciotola e versai dell olio extravergine d’oliva, il succo di un limone, sale pepe e un po’ di prezzemolo.
Misi i calamari e i gamberi dentro la ciotola a marinare.
Osservai il rosso dei gamberi calare di qualche tono e i calamari diventare opachi dal quasi trasparente che erano.
Intanto la mia mente autonomamente considerava le varie consistenze.
Sarebbe stato un piatto perfetto.
Mancava ancora qualcosa.
Alzai lo sguardo, cercavo qualcosa di croccante.
Pane. Pane raffermo. Ne tagliai una fetta. Ricavai dei triangolini, che sfrofinai con del rosmarino fresco. Li misi nel forno. Un minuto dopo erano dorati e croccanti. Li misi da parte.
Andai al frigo dei vini. Scelsi un vino bianco italiano: un Fiano campano. Lo misi nel ghiaccio.
Presi due piatti fondi, ovali, con la cloche e uno più piccolo per me.
Presi la vellutata di patate.
La versai caldissima nel piatto.
Un po’ di tartare di gamberi e calamari che adagiai al centro della vellutata.
Il composto affondò in parte ma non del tutto.
Presi due crostini, li piazzai sopra la tartare e con un cucchiaio versai sopra ed intorno nella vellutata un po’ di citronette.
Un rametto di rosmarino fresco e una violetta completavano l’opera.
Mi sedetti.
Assaggiai il tutto.
Presi il crostino. Il calore della vellutata aveva completato la cottura dei già marinati gamberi e calamari ed, inoltre, aveva permesso agli olii essenziali dell’agrume di sprigionare al massimo il loro profumo.
Avvicinai il cucchiaio alla bocca.
Sorrisi.
Semplice.
Delicato.
Armonico.
L’acidità del limone compensava alla perfezione la delicatezza della vellutata.
Caldo e freddo.
Cotto e crudo.
Morbido e croccante.
In una parola: sublime.
Il piatto perfetto….perfetto per loro.
Sentii il rumore di una macchina che parcheggiava.
Velocemente preparai i due piatti per loro.
Aprii il vino ed accesi una candela.
Uscii in fretta dal retro.
Dopo un po’ li vidi entrare. Rimasero un po’ interdetti e quasi si spaventarono, poi videro i piatti.
Si avvicinarono al tavolo.
Si sedettero.
Quasi contemporaneamente sollevarono la cloche.
Antonio annuì, sorridendo.
Versò del vino a Teresa, gli baciò la mano.
Presero i cucchiai e assaggiarono.
Antonio spalancò gli occhi, io dal mio nascondiglio all’esterno sorrisi soddisfatta.
Ero felice di trasmettere felicità.
In quel momento fui sicura di quello che avrei fatto nella vita.
Teresa prese il biglietto che avevo lasciato sotto uno dei bicchieri.
Lo aprì e lo lesse a voce alta.
“La descrizione di un attimo” c’era scritto.
Antonio sorrise “Bambina sei cresciuta, sei pronta a spiccare il volo” pensò.
Cosa che io già sapevo….naturalmente.
Teresa si alzò e fece il giro del tavolo. Circondò le pesanti spalle di Antonio con le sue esili braccia.
Lui socchiuse gli occhi, dopo aver bevuto un piccolo sorso di vino.
Le mascelle che teneva sempre involontarimente serrate, si rilassarono gradualmente.
Appoggiò la testa al grembo della moglie, lei si chinò a baciargli l’angolo della bocca.
Lui sorrise.
Quella notte fecero di nuovo l’amore dopo due anni.
Cosa che io già sapevo…..naturalmente.
Quello che seguì, fu un periodo bellissimo, dorato e leggero. Mi sentivo bene, soddisfatta di quello che facevo. Antonio continuava a ripetere quasi ossessivamente che ero arrivata al punto giusto per fare nuove esperienze. Sinceramente devo dire che aveva ragione. Il suo compito era giunto alla fine. Non avevo più niente da imparare da lui. Ma io lì stavo bene.
Poi come di solito succede è la vita a decidere al posto tuo.
Ma questa è un’altra storia….che vi racconterò la prossima volta….o forse no.