Candido Vini: la verticale Cappello di Prete è un’esperienza unica
Scritto da Pino De Luca | Pubblicato in degustazioni
Vi sono eventi frequenti, altri più radi, altri assolutamente unici.
L’occasione è una raccolta fondi per la Caritas della diocesi di Lecce, l’azienda Candido Vini, con il supporto della AIS di Lecce promuove una verticale di Cappello di Prete c/o l’Hotel Tiziano di Lecce.
Si fa presto a fare il sold out. Centoquaranta (avete letto bene, 140) persone aderiscono all’invito.
Sarebbe una facile battuta l’associazione Caritas con il Cappello di Prete, ma non v’è relazione alcuna. Cappello di Prete è un appezzamento della azienda Candido, circa 25 Ha, e il nome del vino prese forma da una decisione dei fratelli Alessandro e Giacomo Candido accompagnati dal nume tutelare del negroamaro salentino: Severino Garofano. Era il 1973. La prima prova in bottiglia fu nel 1974, l’etichetta prese forma nel 1975. Il Cappello di Prete era ed è (e sarà) negroamaro in purezza senza elaborazioni (come fu per il Patriglione o il Graticciaia). Si può dire che è il primo negroamaro rosso che abbia conosciuto la bottiglia perché per essa fu progettato.
Che il vino è progetto ed emozione. Se quest’ultima sia gioia o rabbia, serenità o rancore, gaudio o afflizione poco importa. Se si tratta di vino vero e vivo una o più emozioni deve suscitare.
Ed ecco dunque assisi i partecipanti, schierati i sommelier guidati magistralmente da Roberto Giannone, con la guida di Marco Albanese, Fabrizio Miccoli e Giuseppe Baldassarre, coadiuvati dal Dottore Leonardo Pinto, attuale enologo dell’azienda, pronti a sorbire pagine di storia.
Annata 2017, che finalmente la degustazione si percorre a ritroso come sostengo da sempre. Il colore è splendente, con un unghia di color rubino e una pulizia indiscutibile. Il naso è colmo di frutti rossi con la marasca preponderante e il palato, lunghissimo, mostra un tannino da cavallo di razza e un frutto pieno. Vino da ottimo investimento che, pur da infante, fa vedere il suo talento.
Annata 2013. La luce del colore non si spegne. Il granato si porta appresso uno scintillìo ancora più evidente. L’olfatto è di sicuro meno aggressivo ma più sinuoso fino ad esplodere in un bouquet che disvela sempre la marasca ma anche sotto spirito, il frutto pieno e maturo lo ritroviamo in bocca con una beva anch’essa di grande lunghezza e sentori di prugna disidratata con un finale nel quale il tannino avvolgente viene in armonia con una inattesa sapidità. Il fanciullo è cresciuto. Mostra il suo carattere.
Annata 2005. La luce è ancora scintillante, il naso è di una armonia incredibile e al palato una sonata dodecafonica inebria ogni papilla. La beva è fantastica e la nota speziata che si è fatto largo resta sul fondo lasciando nuance di cioccolato a basso titolo che rendono questo millesimo una vera meraviglia. Sensazionale.
Annata 1993. Il colore assume qualche riflesso aranciato sull’unghia che ne disegna l’età (28 anni) ma non perde né pulizia né trasparenza. Il naso si fa ricco di spezie e di albicocca secca, la ciliegia ritorna matura. Al palato il tannino setoso va sempre più verso il cioccolato finissimo e compaiono note di scorza d’arancia candita. Possanza evidente ma in guanto di velluto. Amerebbe un erborinato non giovanissimo.
Annata 1977. Bellissimo da vedere. Trasparente ma con una granato vestito di un’ocra leggera che porta la texture verso il mogano con l’unghia verso il cirmolo. Il naso si fa potente e suadente, da grande old-wine “ricordando un Pedro Ximenez” (concordo pienamente con il Dott. Baldassarre). E in bocca è davvero una apoteosi. Uno splendido 44-enne, la saggezza del Guglielmo da Baskerville impersonato dalla forza serena di Sean Connery. Le note speziate dolci (cannella, chiodo di garofano e financo cardamomo) vanno a variegare la perenne ciliegia sottospirito accompagnata da scorza d’arancia candita e rivestita di cioccolato.
Annata 1975. Qui si usano poche parole. Il colore è sempre bellissimo, il naso incredibilmente vasto e armonico e il gusto irripetibile. Ne berresti a volontà per accompagnare i fichi secchi o i “purciddhruzzi” con il vincotto.
E le emozioni si fanno turbinanti. La mia prima degustazione dopo 9 mesi non poteva essere più soddisfacente e appagante.
La chiudo così, solo rammentando che nel 1975 non c’era la tecnologia che c’è adesso e che ora come allora, il Cappello di Prete deve la sua fortuna (e la sua straordinaria longevità) ad un vitigno che si chiama negroamaro e ad un cru nel quale si producono poco più di 40 quintali di uva ad ettaro!
E, per dichiarazione ufficiale di Alessandro Candido, in quel terreno sono già stati reimpiantati alcuni ettari di negroamaro cannellino che i più giovani impareranno presto a conoscere. Che la scelta del biologico, timbri o no, parte dalla scelta del piede e dell’innesto. Ma questa è un’altra storia.