In Puglia si possono produrre vini bianchi di pregio

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Ci chiedemmo, qualche tempo fa, se il vino bianco, nelle sue declinazioni plurime, avesse un futuro nella Terra di Puglia.

Una di quelle simpatiche (e colte) manifestazioni che le associazioni son solite fare.

Inseguendo il “ciò che potrebbe essere” è automatico investigare ciò che è stato e ciò che è.

Ho il privilegio di frequentare interlocutori dalla conoscenza ampia e praticata, e disponendo, grazie all’editore, di uno spazio prestigioso come questo, vorrei condividere, con coloro che hanno la pazienza di non affidarsi allo slogan breve e ad effetto, alcune delle idee che mi han preso forma.

Principiamo, dunque, con lo sgretolamento di luoghi comuni fondati sul nulla, o, peggio, sulla malafede: “Al sud non si possono fare vini bianchi di pregio.”

Per troppo tempo si è tenuto per acquisito questo adagio e, ancora oggi, si vede una sorta di ansia da prestazione nel mostrare il proprio lato aureo o paglierino.

Solo trent’anni fa (Locorotondo DOC) si mette in campo una bottiglia che perfora il mercato nazionale: Verdeca, Bianco d’Alessano e Fiano, sapientemente composti, diventano un must.

Ma per davvero il Locorotondo Doc nasce dal nulla? O, forse, il famoso Enologo Lino Carparelli ha affondato lo scandaglio in un mondo che era stato solo sepolto dall’oblio?

Ed ecco allora qualcosa sulla quale riflettere:

Foggia

“I vitigni maggiormente coltivati, comuni a tutta la provincia, sono: <omissis>, il Bombino, o Cola tamburo o Buonvino, il Greco bianco, la Malvasia lunga, la Verdeca, il Montonico o Mondonico, il Moscatello, la Turchesca, il Palumbo, la Mostosa, la Toccanese, l’Asprinia e altri, per le uve bianche. Ogni plaga dà la preferenza ora all’uno ora all’altro degli accennati vitigni, che, nei vigneti impiantati nell’ultimo ventennio, si riducono a poche varietà di uva nera.

<omissis>  come fu detto, nelle Puglie si mirava a preparare vini da taglio, ricchi di alcool, di sostanze estrattive e di materie coloranti. Ma questa provincia ha anche abbondante produzione di uva bianca, con la quale ricava vini che oggi, dopo l’applicazione della clausola con l’Austria-Ungheria, hanno acquistata molta importanza commerciale, per la grande esportazione che se ne fa verso quell’Impero e Regno. Ed è precisamente nella parte settentrionale, e cioè nel circondario di San Severo, che oggi si producono vini bianchi assai pregiati per il loro colorito leggero, giallo chiaro, limpidi, sapidi, con sapore franco caratteristico facilmente riconoscibile dai pratici. Anche nel comune di Lucera si producono buonissimi vini bianchi, ma in quantità limitata, fatti con l’uva Greca, dal colorito più chiaro di quelli di San Severo, e forse anche più fini. Base di questi vini sono le uve del vitigno Bombino, alle quali si suole mescolare, in proporzioni minori, per ottenere buon gusto e più omogeneità, il Greco bianco o la Malvasia o la Mostosa o altre: il Bombino viene preferito, perché più produttivo. <omissis> Questa provincia produce annualmente 853.354 ettolitri di vino, dei quali 119.470 sono vini bianchi.”

Bari

“<omissis>, la Malvasia lunga, il Bombino detto anche Cola tamburo, la Verdeca, il Moscato, il Greco bianco o Latino bianco, l’Asprino e altri, fra i vitigni ad uva bianca.

<omissis> Quasi in ogni paese di questa provincia si producono vini bianchi in minore o maggior quantità, secondo i luoghi. Sono, in generale, di colore giallo paglierino, molto chiaro, talvolta tendente al verdognolo, quale appunto oggi si richiedono dal commercio estero. Hanno inoltre gusto franco e giusta alcoolicità, la quale varia fra 10 e 11 per cento. In alcuni paesi l’alcool supera questo limite massimo, arrivando anche fino al 14 e qualche volta a più.

<omissis> I paesi che producono vini bianchi leggeri sono: Corato, Andria, Ruvo, Bitonto, Terlizzi, Palo del Colle, Modugno, Grumo Appula, Bitetto, Canneto di Bari, Montrone, Rutigliano, Castellana, Monopoli, Fasano, Alberobello, Santeramo in Colle e Locorotondo. I vini bianchi alcoolici si trovano in piccola quantità a Barletta, Andria, Trani, Bisceglie. Taluni di essi sono veri vini da dessert, come appunto i Moscati, la Malvasia.”

Lecce

“<omissis>, la Malvasia bianca, la Moscadella, l’Asprino, la Gerusalemme, il Moscato, il Butta palmento o Bianco di palmento e il Minganno, per le uve bianche. Per quantità di produzione la provincia di Lecce è la terza del Regno, e viene subito dopo quella di Bari, essendo prima la provincia di Alessandria. Essa produce annualmente, giusta la media dell’ultimo quinquennio, 1.506,070 ettolitri di vino, di cui 210.850 bianco, ossia poco più del settimo dell’intera produzione.

<omissis>. Ve ne sono di due distinte qualità, leggeri e alcoolici; i primi sono in prevalenza e hanno per lo più colore paglierino chiaro, sono limpidi, profumati e sapidi. Vini bianchi leggeri produconsi in quantità discreta a Martina Franca, Carovigno, San Vito de’ Normanni, e pochi altri paesi del Brindisino. I vini bianchi alcoolici o dolci si producono in non poca quantità con il Moscato, la Malvasia bianca, la Turchesca, ecc. , nel territorio del Capo e in pochi altri.”

Mi perdoneranno gli abitanti delle altre province pugliesi (vecchie e nuove) ma al tempo della scrittura di questo tomo (oltre mille pagine) da parte della Direzione Generale del Ministero dell’Agricoltura in A.D. 1896, la Puglia non era regione ma apparteneva alla sezione Meridionale Adriatica e le province queste erano.

Ecco dunque un passato di meno di un secolo e mezzo ufficialmente certificato dai dati del Parlamento del regno d’Italia.

Tra l’altro, riguardo ad alcune perfidie che scrivevano alcuni giornali del nord Italia, in particolare uno che si chiamava Il Caffaro edito a Genova, nel medesimo tomo si apprende che nelle Province suddette era già in voga, per i vini bianchi, la tecnica “pesta-abbotta” di origine siciliana che consentiva ai vini finezza e freschezza.

E allora cosa accade nel presente?

Una proliferazione di produzioni, alcune anche molto pregevoli, ma nella gran parte, prive di una efficace narrazione. E, spesso, quando presente, rischia di tracimare nella retorica roboante che ne riduce, se possibile, anche la credibilità. Ecco nella situazione attuale, le ormai centinaia di etichette che s’affastellano sugli scaffali, perseguono l’obiettivo miserrimo di “scacciare” il vicino cercando uno spazio nel mercato dell’immediato e del fruibile “entro l’annata” o nei primi mesi estivi della medesima.

E seguendo mode più o meno effimere. Come fu il tempo dello chardonnay o, più recentemente, quello del Fiano, del Minutolo e così di seguito.

Eppure la storia ci dimostra che una “politica di areale” è possibile, che la diversificazione ampelografica è ricchissima e che le tecniche di campagna e di cantina sono ben note e di livello eccelso.

Il presente ci dice che siamo in un ambiente sostanzialmente caotico, senza nessuna direzione preferenziale che renda i bianchi di Puglia noti e ambiti sui tavoli della ristorazione regionale e nazionale almeno.

Che Prosecco e Franciacorta son nomi stranoti e, di rado, chi ne chiede il consumo, sa che cosa sia la glera, il verdisio o la perera. E, magari, ignora che la Franciacorta si nutre esclusivamente di vitigni internazionali (chardonnay e pinot).

E allora il futuro?

Il futuro una novità ce l’ha, una innovazione per un Blanc de Noir (scusatemi, dovrei dire per un bianco da uve nere ma un po’ tutti siamo contagiati…) che ha un suo fascino ed anche un certo successo. Il Negroamaro vinificato in bianco grazie ad una “insistenza” dell’ Enologo Giuseppe Pizzolante Leuzzi.

Non entro nel giudizio di valore sul medesimo (il negroamaro è così plasmabile che se ne può fare spumante bianco e financo passito), mi limito a stimolare una riflessione collettiva.

Ingoiato il DOC geografico dal campanilismo delle cento municipalità, può essere il vitigno il perno sul quale render noto un bianco diffuso?

E se di vitigni ne abbiamo così tanti, al netto delle produzioni monovarietali tanto gradevoli quanto economicamente difficili da sostenere, non rischiamo di far confusione?

Prosecco e Franciacorta sono nomi assolutamente e genialmente inventati; per i bianchi fermi (bollicine e dolci lasciamoli da parte, avremo tempo per disquisirne) si potrebbe immaginare qualcosa che ne rendesse semplice il nome collettivo lasciando alla interpretazione geografica e aziendale la realizzazione del prodotto consumabile?

Non conosco le risposte, mi limito a far domande, sperando che aumenti il numero di coloro che sappiano riconoscere un fiano da un bianco d’Alessano, una verdeca da un sauvignon, una malvasia da uno chardonnay. E, perdonatemi, se non mi appassiona la discussione sul minutolo.

Aggiungo una immagine vintage che, al di là delle cose che si possono raccontare, contiene una informazione pubblicitaria indelebile e preziosa. Così, ad uso di chi ci racconta che quello che vale sono i contributi a fondo perduto. E, con essi, perde i fondi.

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