Piero Mastroberardino:”è bene aver chiaro il confine tra informazione e comunicazione enogastronomica”
Scritto da Davide Gangi | Pubblicato in Interviste
Piero Mastroberardino è nato e vive ad Avellino ed è il CEO dell’Azienda Vinicola Mastroberardino.
Nel 1990, completati gli studi universitari in campo economico, inizia a lavorare in Azienda, entrando a far parte della più antica casa vinicola della Campania.
Nel 1993 accede al board direzionale e, nel 1996, assume il ruolo di Amministratore Delegato.
Piero Mastroberardino è inoltre Professore Ordinario di Economia e Gestione delle imprese, Dottore commercialista e revisore contabile dell’Università degli Studi di Foggia.
Nel Maggio 2015 è diventato Presidente dell’Istituto del Vino Italiano di Qualità Grandi Marchi succedendo a Piero Antinori.
Considero l’azienda Mastroberardino brand ambassador della Campania, dopo tanti anni la vostra Regione prende riferimento dalla vostra produzione e insieme ad altri avete costruito in tutti questi anni una reale immagine del territorio.
Si questa è una terra fortunata. La Campania dal punto di vista territoriale è molto eterogenea, c’è una viticoltura che si estende dalla fascia costiera fino all’interno, dove troviamo coltivazioni di media e alta collina. L’Irpinia è l’espressione più fredda del territorio campano, infatti siamo all’inizio di dicembre ed i nostri monti sono già innevati, una caratteristica della nostra viticoltura, sia dei bianchi che dei rossi. La mia famiglia risiede qui da più di 200 anni, le prime informazioni risalgono al catasto borbonico, ai tempi di Carlo III, di Carlo I Re di Napoli. Nel corso dell’800 il mio trisnonno Michele iniziò un’operazione di razionalizzazione imprenditoriale e suo figlio Angelo, nel 1878, iscrisse l’azienda nell’albo degli esportatori della Camera di Commercio, avviando il processo di diffusione dei vini irpini nel mondo. E’ una delle famiglie pioniere dell’esportazione del vino su scala nazionale, il tutto documentato da scambi epistolari dell’epoca che narrano dei viaggi fatti verso gli Stati Uniti e il Canada prima e verso l’ America Latina poi, attraverso i quali si ha la percezione di come fosse moderno il loro approccio al business. La mia famiglia ha sempre dato valore all’invecchiamento dei vini e grazie alla lungimiranza di chi mi ha preceduto mi ritrovo in casa un caveaux che rappresenta l’ultimo secolo di storia della mia famiglia e dunque dell’Irpinia enoica, con bottiglie che alla veneranda età di circa un secolo di vita ancora dimostrano straordinaria freschezza espressiva. Non credo siano molte le aziende che possano esibire una verticale dello stesso vino andando indietro di 80-90 anni.
Come è cambiata la produzione di Mastroberardino e la produzione vitivinicola della Campania nell’ultimo lustro?
Nell’ultimo lustro direi che è cambiata poco. La nostra è una viticoltura classica, dunque pur avendo evoluzioni di anno in anno, nell’arco di 5 anni non si registrano cambiamenti determinanti.
Possiamo dire che noi oggi stiamo con orgoglio ancora immettendo sul mercato vini di fine anni ’90, abbiamo in listino regolarmente almeno 6 o 7 vendemmie dei nostri due Cru di Taurasi più importanti. Lo stesso facciamo con i bianchi, abbiamo incominciato la commercializzazione di una selezione di greco del 2008 ma abbiamo ancora una disponibilità del 2007. Anche sui bianchi si fa un lavoro che guarda molto indietro per gettare le basi per il futuro. Io ritengo che questo messaggio debba essere diffuso maggiormente sul territorio, perché c’è una dinamica imprenditoriale molto vivace e quindi pian piano, anche attraverso la mia presenza nei convegni e nei paesi della nostra provincia, provo a dare una mano per omogeneizzare il linguaggio del vino.
Il Taurasi è un vino conosciuto a livello nazionale ed internazionale. Il vostro Radici è una dimostrazione di un prodotto essenziale, di carattere, di territorio e che non cavalca l’onda della cosiddetta omologazione . Come trovi le nuove produzioni di Taurasi?
Quello che stiamo registrando è già successo in molti comprensori produttivi d’Italia. Io dico che il nostro Radici è un grande classico, pur essendo un vino moderno alla degustazione perché mostra grande piacevolezza pur restando di grande carattere, di personalità. È un vino prettamente di territorio, di vigna e molto poco di cantina ed è un vino che si prende la libertà di prendersi i 96 punti Parker, come è successo di recente. Significa che è il mondo del vino che ha ormai iniziato a recepire maggiormente la biodiversità e nella biodiversità c’è più spazio per i grandi Taurasi classici. Se noi, in un momento in cui si pone enfasi sulla biodiversità, facessimo un’operazione di verso contrario, saremmo noi anacronistici nel tendere all’omologazione. Io tutti gli anni vedo quanta consapevolezza ci sia tra i produttori e i wine lovers di tutto il mondo nei confronti di un fenomeno che è l’Aglianico. E’ molto bello che in eventi internazionali venga al mio banco un produttore cileno o sudafricano spinto dalla voglia di conoscere cos’è l’Aglianico. Qualcosa è cambiato in questi ultimi anni e questo vuol dire che il gran lavoro delle generazioni che mi hanno preceduto in questo momento sta trovando sbocco. Adesso quello che manca ancora alla nostra Provincia è un serio investimento in comunicazione perché abbiamo fatto tanto sul territorio a livello produttivo, ma abbiamo fatto troppo poco soprattutto dal lato istituzionale per far comprendere quanto questo comprensorio sia ad alta vocazione viticola ed enologica.
Quanto sta influendo il cambiamento climatico nella viticoltura e nella produzione del vino?
Mio padre racconta che negli anni 60 le uve aglianico per il Taurasi si raccoglievano normalmente sotto la neve, considerando che siamo l’ultima zona d’Italia a raccogliere. Oggi noi la prima vera neve l’abbiamo a gennaio e questo sicuramente è un tendenziale cambiamento. Ma il vero problema del global warming sono gli effetti devastanti generati da fenomeni metereologici caratterizzati da maggiore varietà e violenza. Per fortuna l’Irpinia è protetta dal punto di vista orografico, essendo protetta da una cinta montuosa su tutti i versanti e dunque non abbiamo patito gli ultimi eventi che si sono abbattuti maggiormente in alcune aree del nord e del centro del Paese, come gli allagamenti in agricoltura.
Cosa pensi della nuova generazione che si sta avvicinando al management del vino? Io la trovo molto attiva e ci sono molti giovani che sanno fare bene il lavoro di brand Ambassador della propria azienda. Un consiglio che potresti dare, dall’alto della tua esperienza, a chi si sta affacciando a questo nuovo mondo?
Il consiglio è quello di non patire eccessivamente il momento, perché nel mondo del vino bisogna avere una prospettiva temporale molto ampia. Lo dico perché nel periodo della crisi è successo che molte aziende giovani e gestite da giovani si sono preoccupate troppo delle giacenze, considerandole una zavorre piuttosto che un’opportunità, e hanno svilito il prezzo del proprio prodotto. Io penso che sia fondamentale salvare il valore e mai rinunciare a riconoscere il frutto del proprio lavoro: un vino che riposa in cantina non è un problema, soprattutto nella nostra terra, dove ci sono vini che hanno capacità di invecchiamento straordinarie. Questo è un concetto che, nonostante tante affermazioni di principio, molte aziende più giovani non sono ancora riuscite a metabolizzare… Ovviamente possono esserci anche problemi di carattere finanziario, ma in questo caso aggiungerei che nel mondo del vino si entra guardando lontano, non si può pensare al nostro settore con una prospettiva da mordi e fuggi… sarebbe un bagno di sangue.
Permettimi una provocazione, in Campania si parla tanto di unione ma poi si vede che in una manifestazione importante come il Vinitaly la Regione si presenta disunita. E’ stata un’occasione commerciale, politica…
Io credo che questa cosa non sia nata all’interno della compagine dei produttori ma altrove. Per anni si è trascinata avanti una divergenza istituzionale tra la componente di Unioncamere e la parte dell’Assessorato regionale. Probabilmente da un lato per personalismi, dall’altro per tempistiche e logiche nei processi decisionali, alla fine si è determinata una contrapposizione che di tanto in tanto riaffiora. Noi produttori lavoriamo affinché si comprenda che queste istituzioni possono anche avere loro momenti di conflitto, ma questo non può incidere sugli aspetti di comunicazione del territorio. Quest’anno abbiamo avuto notizia di un riaccorpamento: la Campania sarà di nuovo al Vinitaly tutta insieme, però c’è qualcuno che vuole stare più insieme di altri, per cui si sta cercando di trovare una modalità di presentazione che sia equilibrata e coerente, un’immagine coordinata delle diverse zone pur dando merito alle distinte personalità e soggettività. In particolare Irpinia e Sannio sono due aree provinciali in cui il vino è la risorsa, credo che questa sia una cosa che verrà accettata un po’ da tutti, però l’Irpinia da sola nel mondo non è sufficientemente nota, il Sannio nemmeno, la Campania stessa fa fatica ad essere identificata se non si associa alle parole Napoli o Amalfi Coast. Dunque bisogna ragionare su queste debolezze e provare a mettere a punto una modalità di presentazione che renda identificabile un concept di territorio.
Tu sei Presidente dell’Istituto del Vino Italiano di Qualità Grandi Marchi, qual è il compito che ti compete?
Direi che è un lavoro facile, perché è un gruppo di 19 imprenditori di caratura straordinaria. La squadra è composta da Alois Lageder, Argiolas, Biondi Santi Greppo, Ca’ del Bosco, Michele Chiarlo, Carpenè Malvolti, Donnafugata, Ambrogio e Giovanni Folonari Tenute, Gaja, Jermann, Lungarotti, Masi, Marchesi Antinori, Mastroberardino, Pio Cesare, Rivera, Tasca D’Almerita, Tenuta San Guido, Umani Ronchi… ci sono tra i nomi più belli del firmamento dell’enologia italiana. Tutti imprenditori che quando prendono la parola ti danno sempre delle bellissime lezioni, quindi il presidente non deve far altro che dirigere il traffico e questa per me è una bella esperienza. La mia presidenza segue quella di Piero Antinori, che è stata senza dubbio di grande levatura. Io mi sento a mio agio perché fin da ragazzino mi sono sempre dedicato ad attività associative, ho fatto il presidente di Federvini per molti anni… mi viene abbastanza naturale e poi sono orgoglioso di questo gruppo di imprenditori così importanti ma che sono anche amici, quindi c’è un clima straordinario, c’è sempre il piacere del confronto.
Sei stato un po’ polemico con le guide italiane, ci vuoi spiegare le motivazioni?
Più che polemico forse un pizzico scanzonato. Ma sulle cose serie che riguardano il settore penso si debba essere schietti, a beneficio di tutti, e penso che debba farlo a maggior ragione l’esponente di un’antica famiglia del vino come la mia. Dico semplicemente che bisogna essere molto attenti al proprio ruolo professionale. Io stesso, che indosso diversi cappelli professionali, quando sono nell’Università e faccio ricerca non metto mai in mezzo il mio ruolo di imprenditore, e viceversa. Il confine tra informazione e comunicazione è delicatissimo e mai sufficientemente netto da esser percepito dal pubblico: chi ti ascolta deve sapere se in quel momento stai facendo un endorsement, una sponsorship, un’attività di cronaca o di critica. Possiamo dire che nel giornalismo enogastronomico non sempre queste distinzioni sono ben chiare e delimitate. Questa cosa rischia di far crollare la credibilità del sistema, che già ha sofferto di tantissime polemiche tra i diversi editori e giornalisti. Secondo me, stante il momento di debolezza delle guide, bisogna essere attenti ad evitare che questo fenomeno di deriva provochi ulteriori danni e invece bisognerebbe fare uno scatto d’orgoglio sul proprio profilo professionale. Mi fa piacere dirlo a Vinoway perché vedo che è fuori da questi “giochi”.
Concludo sempre le mie interviste con un :”cosa vuoi che ti auguri”…
A me piace che mi si auguri di avere una condizione di serenità e la possibilità di rimanere in contatto con le mie emozioni, mi piace molto esprimermi artisticamente. Modestamente dipingo e scrivo romanzi, ecco questo è un aspetto del mio animo che secondo me è parte del viticoltore, perchè il viticoltore non può non avere una sensibilità creativa per la follia che questo lavoro rappresenta. Spero che questa parte della mia anima non si inaridisca, almeno che non accada troppo presto.