Moby Dick & La Bardette 2018 di Domaine Labet
Scritto da Leila Salimbeni | Pubblicato in recensioni vino, vino
“Se penso ai vini della mia vita sono tutti o rossi o bollicine”. A questo pensavo, smentendomi impunemente, mentre sfogliavo il mio diario dei vini memorabili. Manco a dirlo, su quelle pagine dense di simboli vergati in caratteri minuscoli come per pudicizia, svettavano i voti più alti mai assegnati (98 e 97), torreggianti sopra a due memorabili bianchi che condividevano tra loro due aggettivi – “irresistibile” e “smisurato” – e il portamento, “altero”.
Ebbene, confesso che pur di fronte all’evidenza non mi sono ancora arresa all’idea di abbandonare le riserve che ho nei loro confronti: algidi, freddi, anaffettivi, esili, statici, ridotti – bianchi, insomma – e magari è pure colpa di Melville che, in Moby Dick, scriveva che “con la sua indefinitezza, la bianchezza adombra i vuoti e le immensità crudeli dell’universo, e così ci pugnala alle spalle col pensiero dell’annientamento […]” e che “non è tanto un colore, quanto l’assenza visibile di ogni colore e nello stesso tempo l’amalgama di tutti i colori, ed è per questo motivo che c’è una vacuità muta, piena di significato […]” nel bianco.
Quindi diciamo pure che faccio notoriamente fatica se, sin dal colore, il vino bianco mi appare troppo bianco per esser vero, perché c’è qualcosa di innaturale, di inverosimile in un colore che madre natura stessa assegna con tanta parsimonia, come quasi per errore. Ed è dunque per questo che mi sono trovata sopraffatta, trasecolata, straniata e pure colpita, profondamente e quasi mortalmente, di fronte all’effetto sorpresa generato da sorsi solo apparentemente innocui e inoffensivi ma rivelatisi, poi, a poco a poco esiziali nel loro crescendo di affondi, nel loro levarsi alto, acuto e profondissimo.
Una cosa, comunque, l’ho capita. Che dei bianchi mi piace una caratteristica che amo smodatamente anche nelle persone e che potrei definire, semplicemente, come “incisività”, che è poi l’esatto contrario dell’indefinitezza o dell’ambiguità.
Ebbene, nella rosa di bianchi che più m’hanno colpito, al limite dello straziato, almeno un bianco mi si è impresso nella memoria in una maniera che ancora mi commuove. Non vi parlerò di questo, di cui preferisco tacere giacché ne sono gelosissima. Vi parlerò, piuttosto, di un altro bianco, più popolare, perché tanto in voga presso gli appassionati di vino “naturale” o, come amo definirlo, giusnaturalista perché quasi sempre infarcito di innecessarie connotazioni politiche (ma questa è un’altra storia). Sto parlando de La Bardette 2018: lo Chardonnay ouillé di Domaine Labet.

Ebbene, se dovessi guardarlo da lontano, come lontana sono, oggi, anni luce dal giorno in cui lo degustai, parlerei di un’intensità, di una densità, di una consistenza che tuttora, anche a distanza di giorni, mi lascia come tramortita. Una concentrazione che pagherei e pregherei per esperire ogni giorno non solo nel vino ma nella vita tutta tanta e tale era l’incisività e la significanza di un sorso che, invece di ubriacare, rendeva come più lucidi.
E ricordo poi una intima, disarmante disinvoltura. Quel vino, difatti, mi si concesse subito senza formalismi né sovrastrutture. In barba alla temperatura, alla frettolosa apertura, in barba alla sua giovinezza e in barba perfino alla mia disposizione d’animo – avevo allora il cuore quasi spezzato – mi apparse subito aperto, generoso, condiscendente e consolatorio, oltre che ritmato da una complessità viva, come di danza tribale.
E poi la sua straordinaria, commovente coerenza: bocca e naso, difatti, erano adesi, avvitati sullo stesso registro: uno stritolarsi duro di rocce ed erbe di montagna su grassezze d’alpeggio e, inaspettatamente, di pere profumate, ma senza alcun sospetto di dolcezza. La sua concentrazione, poi, mi parse allora quasi spietata nella filigrana di tutte le asperità che il sorso sollevava al palato e dunque al naso: pietre spezzate, quasi sulfuree, in un dimenarsi vivo e senza posa di puro deliquio succoso, salato, stordente eppure conciliante, consolante, clemente: un sapore giusto e totale, viscerale e senza scampo, come senza scampo era, del resto, la sua freschezza, misteriosa perché davvero non si sarebbe potuto dire da dove venisse.
Tornando a Melville, insomma, in questo vino come “in molti oggetti naturali, la bianchezza aumenta e raffina la bellezza, come se le impartisse qualche sua speciale virtù: come nei marmi, nelle camelie e nelle perle” che da quel colore, non colore, mutuano “il gran principio della luce“.