Molly’s Game e il Bandol 1985 di Chateau Pradeaux

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Raramente m’è capitato di assaggiare un vino per cui il termine “integrità” fosse più appropriato del Bandol 1985 di Chateau Pradeaux. Che poi, a onor del vero, una sensazione simile l’avevo già esperita, e non senza meraviglia, col commovente Cornas Chaillot 2000 di Thierry Allemand, che era comunque 15 anni più giovane e di certo meno calzante con la storia che sto per raccontarvi: quella di Molly Bloom così come ce la riporta, dietro alla cinepresa, Aaron Sorkin che qui stupisce più per la sceneggiatura che per la regia. Ma andiamo con ordine.

Immaginatevi, ora, un vino che, al naso e benché più lontanamente anche al palato, ricorda un Barolo, ma più a un Barolo di Barolo – ovvero più umorale e prodigo di polpa – che quelli più severi e più austeri di Serralunga. Fiero dei suoi quasi 37 anni tra cantina e bottiglia, quello che avrebbe dovuto essere un sorso fruttato e apparentemente disimpegnato si srotola oggi al palato in tango languido, movimentato dalle forme voluttuose e turgide, benché ritmato da un’acidità sbarazzina, quasi adolescenziale, e da una trama sottile di registri stilistici: uno tra tutti, l’urbanità in fatto di abbinamento. Sia che s’avesse davanti della selvaggina, delle frattaglie, o un virginale piatto di tortellini alla panna, quasi in bianco, questo portentoso Bandol rendeva credibile ogni combinazione con la sua sola presenza, sempre opportuna, sempre discreta pur nell’abbondanza.

Ebbene Molly’s Game, che pure è la trasposizione di un libro che, invero, ignoro, vanta lo stesso rigore pur nell’irresistibile ritmo della sceneggiatura e della personalità della protagonista, magnificamente tratteggiata nell’interpretazione dalla divina Jessica Chastain.

Una bellezza ostentata ma intelligente, irresistibile ma incorruttibile, la sua, perfino pacificata, peraltro, con la componente fragile e tenera che intimamente la abita e si presuppone abitare, al contrario dell’uomo, “l’altra metà del cielo”. La donna per antonomasia, insomma, almeno secondo la sottoscritta, e non occorrerà che vi dica che ritengo che la differenza tra uomo e donna andrebbe enfatizzata più che minimizzata, come invece accade, e ci vogliono pure convincere che ciò sia giusto e finalmente equanime, in questi tempi di cancel culture e di parità forzata in cui l’uguaglianza dei diritti viene spesso fraintesa o, peggio, barattata, con l’uguaglianza dei costumi. 

E insomma vivaddio un vino femmina prima ancora che femminile, e non è un caso che il vitigno che soprattutto lo abita sia per appunto laMourvèdre. Capricciosa ma monogama, giacché difficilmente si farà innestare su ceppi americani, è del resto devotissima ai suoli sabbiosi di Bandol, dove viene messa a dimora praticamente in riva al mare. E dove, comunque, non abita mai sola se è vero, com’è vero, che le fa quasi sempre compagnia una quota, in questo caso irrisoria ma comunque necessaria, di Grenache (5%) da uve che erano, peraltro, allora piuttosto giovani e vinificate da sempre alla stessa maniera: a grappolo intero, in tini di cemento termoregolato. La maturazione, piuttosto lenta giacché contempla ben 48 mesi in vecchie botti di rovere, restituisce un sorso tannico e fruttato in gioventù che, però, è capace di regalare, a chi lo saprà attendere, un piacere totalizzante: cerebrale e carnale assieme, perfetta conciliazione tra spirito e materia.

La cosa bella, peraltro, è che nelle annate ancora in commercio è pure a buon mercato ma non illudetevi: non si concede facilmente e si farà capire, e amare, solo da coloro che le daranno fiducia.  

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