C’era una volta, in Langa…
Scritto da Filippo Lanzone | Pubblicato in storia
Potrebbe sembrare l’inizio di una favola, o di una bella storia per affascinare i piccoli e convincerli a dormire. Invece, stiamo parlando di una grande tradizione enologica piemontese, che parte da lontano e che, fra ristrettezze, povertà, sfortune (la “malora”) e tanti sacrifici, ha saputo divenire eccellenza mondiale e creare occupazione per la sua gente. Chi oggi posi lo sguardo su queste terre, tenga bene a mente come non fosse raro, ancora fino alla metà del XX secolo, incontrare per il Piemonte di paese in paese, di borgata in borgata, provenienti da questa zona, commercianti di acciughe o di vino sfuso itineranti su carri a traino animale, in cerca di un po’ di benessere per le proprie famiglie. Ma torniamo alla nostra storia, o meglio, ai luoghi dove essa si svolge.
Siamo in provincia di Cuneo, per la precisione sulla riva destra del fiume Tanaro, costellata di colline che dalla città di Alba risalgono verso l’appennino ligure sotto forma di lunghe lingue collinari dai fianchi scoscei, che suggerirono ai Celti, abitatori di questi luoghi assieme ai Liguri, il nome che ancora oggi le contraddistingue: le Langhe, “lingue” appunto. Qui, fra noccioleti, vigneti, cascine e piccoli borghi, ancora svettano antiche torri di guardia, erette a vigilanza dalle scorrerie dei Saraceni nel Medioevo.
Per secoli ivi l’economia si è basata sull’allevamento, sulle colture di cereali, foraggi, ed anche uva: soprattutto dolcetto, ma anche nebbiolo, oltre ad altre uve autoctone che abbiamo già incontrato in precedenza. Il punto di svolta, e l’inizio della storia che interessa a noi, si ebbe nella prima metà del XIX secolo.
Nel cuore delle Langhe, fra Barolo, Serralunga e Castiglione Falletto, a una dozzina di chilometri da Alba, si estendeva da secoli il feudo dei marchesi Falletti di Barolo, il cui ultimo rampollo Tancredi, paggio dell’Impero a Versailles, con il beneplacito del sovrano Napoleone Bonaparte nel 1806 convolò a nozze con la giovane Juliette Colbert, discendente da una famiglia aristocratica della Vandea di antichissimo lignaggio. Tornati a Torino con la Restaurazione, nel grandioso Palazzo Falletti in via delle Orfane, da cui amministrarono gli enormi possedimenti di famiglia sparsi per il Piemonte, grazie alla lungimiranza e grandezza d’animo della contessa, fecero della propria dimora il luogo d’incontro per intellettuali piemontesi del calibro di Silvio Pellico, Cesare Balbo e del conte Camillo Benso di Cavour.
Proprio questi, non ancora statista ma già tenutario e sindaco di Grinzane, oltre che amante del buon vino, formò assieme alla contessa, rimasta vedova nel 1838 e che si sarebbe fatta chiamare sempre Giulia di Barolo, un formidabile asse per lo sviluppo del vino di Langa. All’epoca il nebbiolo di queste colline generava vini dolci, agevolati dal fatto che la vendemmia di ottobre giungeva a ridosso dei primi freddi pungenti che inibivano la fermentazione, lasciando buoni residui zuccherini nel vino. Il Cavour ingaggiò nel 1843 l’enologo francese Louis Oudart, all’epoca a Genova per motivi commerciali, al fine di applicare le moderne tecniche enologiche d’oltralpe ai propri vini; Oudart diede grande attenzione all’igiene in cantina e fece un vino secco: era nato il Barolo.