Il Moscato di Santo Stefano Belbo
Scritto da Claudio Toce | Pubblicato in territorio
“Ebbi il moscato, da Rivoli, da Sciolze, da Strevi, da S Stefano Belbo, dalla Spezia, da Voghera, da Lucca, da Mombercelli, da Nizza, dalla Puglia, dalla Lombardia, dalle Marche, da Piacenza, dalla Toscana, dalle Romagne, dalla Sicilia e dalla Sardegna e parecchi dalla Francia, ed ho potuto convincermi che in generale una sola è la qualità che si coltiva per la confezione dei vini bianchi.”
“Se il Moscato, frutto vivifico della generosa vite, è considerato l’essenza di Santo Stefano Belbo, Cesare Pavese, anch’egli figlio creativo della feconda terra di Langa, è sicuramente il principale testimone di questa realtà, il cantore che profumando e colorando la propria opera con le dolci fragranze e le calde sfumature della fertile campagna, ha donato immortalità a questi luoghi, li ha resi eterni ad un comune giro di stagioni.”
Cosi descriveva il Moscato, Giuseppe dei Conti di Rovasenda, dal Saggio Empelografico Universale.
Santo Stefano Belbo.
Il territorio di Santo Stefano Belbo misura poco più di 23 Km quadrati, si sviluppa ai margini delle Langhe, in un’area in gran parte collinosa costituita da marne calcaree ed arenarie, eccezion fatta per la piana alluvionale formata dal torrente Belbo. L’abitato è situato alla quota di 175 metri s.l.m., mentre i versanti che si sviluppano sui due lati del fiume, raggiungono, soprattutto nel versante nord, quote di alta collina che culminano nei 590 metri della località Falchetto. S. Stefano confina con i comuni di Calosso, Camo, Canelli, Castiglione Tinella, Cossano Belbo, Loazzolo e Mango.
Santo Stefano Belbo è un mondo che conduce immancabilmente al suo passato storico, che si perde agli inizi dell’anno 1000, così come nella storia più recente, quella raccontata anche da Cesare Pavese, illustre scrittore del novecento che nacque a Santo Stefano Belbo il 9/09/1908.
Qui tutto ricorda il grande poeta ed i suoi romanzi: dalle vie del centro alla casa natale, dai nomi delle località (il Salto, la Mora, il Nido, i Robini), alla casa di Nuto.
In questa zona è anche bello passeggiare, e trovandosi in un luogo prettamente collinare, i percorsi sono di media difficoltà; percorrendo il crinale delle colline si possono osservare suggestivi panorami sulla Valle Belbo e, nelle giornate senza foschia, si può vedere l’ampia cerchia delle Alpi.
Gente di Santo Stefano Belbo.
Leggo da un opuscolo che qui a Santo Stefano Belbo: da queste parti imparare a conoscere il vino, prima ancora di farlo, è un dovere capitale.
C’e chi lavora di naso con l’impegno d’un segugio e confronta colori come un pittore, scovando dal Moscato la magia del sole di luglio.
Chi conosce il vino sa come farne del buono e sa che nel vino buono ci può anche stare tutto un mondo , perché il vino è un filtro , una religione antica, che cambia le cose nell’anima e le mostra per quello che sono, al di là della loro funzione e del loro aspetto materiale.
È l’essenza della natura quella che può mostrare un grande vino, un mondo mitico da sembrare l’unico mondo possibile.
A Santo Stefano Belbo i vini si chiamano Moscato d’Asti e Asti Spumante, di cui il paese è il maggior produttore.
Il merito và senza dubbio al personaggio in questione è Giovan Battista Croce, che nel 1606 illustrò tutte le sue scoperte in un volumetto “Della eccellenza e diversità dei vini che sulla montagna di Torino si fanno e del modo di farli: “l’uva si schiaccia dentro la cassa di torchio con i piedi facendo attenzione a mettere le sportelle ai buchi di detto torchio acciò che il vino ne eschi più chiaro e netto, poi si passa alla purificazione, con il sistema della coperta e cosi via, fino all’imbottigliamento ed alla consumazione del prodotto”.
Hanno un anima inquieta, quasi indemoniata, che fermenta scappa e non si ferma mai, con la botte che perde e la luna che dall’alto ne decide le sorti.
I vignaioli affidano i suoi dubbi alle masche.
La masca è un termine piemontese, molto diffuso nel Roero, nelle Langhe e nel Canavese, la cui etimologia è incerta. Il termine sta prevalentemente ad indicare una strega o fattucchiera.
La parola probabilmente trae origine dal longobardo maska, che indica l’anima di un morto (da cui anche il significato meno comune di “spirito soprannaturale”), o dall’antico provenzale mascar, borbottare, nel senso di borbottare incantesimi.
Le masche sono una figura di rilievo nel folklore e nella credenza popolare piemontese, che attribuiscono ad esse facoltà sovrannaturali tramandate da madre in figlia o da nonna in nipote. Secondo la tradizione, oltre ai poteri, la masca eredita anche il Libro del Comando, un testo contenente le varie formule e incantesimi della strega.
Il loro aspetto fisico, come quello delle altre streghe, era di donne anziane dall’aspetto sgradevole, ma a volte si trattava anche di donne dall’aspetto normale e talvolta di giovani attraenti, ma dotate di poteri sovrumani.
Nel passato gli agricoltori e i montanari usavano attribuire ad esse la responsabilità di avvenimenti negativi o inspiegabili. Le donne accusate di essere masche venivano perseguitate e spesso processate e condannate al rogo dal tribunale dell’Inquisizione.
Ancor oggi è di uso comune in Piemonte commentare scherzosamente la caduta “soprannaturale” (accidentale) di oggetti (ad esempio una forchetta che dalla tavola) con l’espressione “Ai sun le Masche”(“Ci sono le masche”).
Bibliografia: Giuseppe dei Conti di Rovasenda, dal Saggio Empelografico Universale.