OLTREPO’ PAVESE: NANI SULLE SPALLE DI GIGANTI

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L’Oltrepò Pavese viene sempre visto come la “tolkeriana” Terra di Mezzo della Lombardia. Un territorio che si delinea tra il Piemonte e la stessa Lombardia, tra l’Emilia e la Liguria.

È  la gente che ci vive e che sa raccontarci in modo perfetto questo territorio.

Loro non si sentono “tra qualcosa” o “ tra due fuochi”, questa è casa Loro!

L’Oltrepò è un luogo antico e storico dove regni, corone e casate si sono susseguiti lasciando segni indelebili, da Federico Barbarossa alle più nobili famiglie italiane come i Malaspina, gli Sforza, i Del Verme e i Beccaria.

Sono settantotto i Comuni che appartengono a questa area, ognuno dei quali è proprietario storico di un patrimonio artistico e culturale soprattutto con i suggestivi borghi medioevali, le torri e i castelli. Nei vigneti di queste colline vengono prodotti vini di indiscusso pregio.

Si resta sempre stupiti quando veniamo a conoscenza che l’Oltrepò Pavese possiede la terza DOC più estesa d’Italia.

Sono circa 13.500 gli ettari vitati con una DOCG sette DOC e un IGT.
Proprio l’Oltrepò Pavese detiene il primato nazionale per la presenza di Pinot Nero con ben 3000 ettari, ancor più che nelle zone in cui esso spesso risulta più rinomato come l’Alto Adige e il Trentino.

Un territorio che può vantare un patrimonio enologico tale dovrebbe almeno annoverarsi tra quelli che meglio esaltano i valori vitivinicoli e commerciali del Pinot Nero. Non è del tutto così, infatti la maggior parte del Pinot Nero raccolto è destinato a discutibili vinificazioni “frizzantine”.

Il Pinot Nero è un’uva difficile sia da coltivare che da vinificare a causa della sua instabilità fenolica, legata agli antociani. Questa caratteristica ha portato le uve ad essere spesso vinificate in bianco per aggirare il problema. Tali produzioni non risultano improprie poiché i prodotti che ne derivano restano di pregio e qualità. Il rischio in cui sono incappati molti produttori dell’Oltrepò è stato quello di scivolare su vinificazioni dal dubbio impatto enologico, puntando più sulla vendibilità immediata di vini “allegri”.
Il punto della questione non è legato unicamente alle modalità di vinificazione di un’uva bensì nello scopo commerciale insito in essa.

Chi, in questo territorio, ha voluto bene al Pinot e agli altri uvaggi tipici di questi terreni, li ha utilizzati con sapienza per esaltarne le caratteristiche peculiari legate al territorio e alla cultura enologica.

Nell’Oltrepò Pavese, purtroppo, sono ancora presenti cantine che coscienti di una debolezza politica territoriale producono prodotti di scarso rilievo enologico, rovinando lo sforzo di chi invece lavorando magistralmente valorizza questo territorio.

In questo meraviglioso contesto viticolo il Consorzio Tutela Vini ha preso in carico l’onere di regolamentare e disciplinare i valori di questo territorio con l’obbiettivo di legare l’enologia dell’Oltrepò Pavese a valori unici ed indissolubili .

Un compito, quello del Consorzio, non facile in un ambito in cui ancora non sono presenti regole ferree per la salvaguardia dei vitigni autoctoni. Ne è un esempio l’uva croatina che ancora oggi è una delle uve più coltivate in questi vigneti. Non è raro imbattersi sugli scaffali dei supermercati o in enoteca in bottiglie di Bonarda dalle molteplici caratteristiche.

Non è infatti del tutto chiaro il destino della Bonarda, non si capisce se debba esser vinificata per dare vini mossi, frizzanti o fermi da invecchiamento.

La domanda ai produttori e quindi al Consorzio sorge spontanea, se la Croatina è l’uva che contraddistingue insieme ad altre l’intero patrimonio enologico di questo territorio, quale deve essere la sua versione enologica ufficiale?

All’interno della DOC dovrebbe essere più chiaro e netto l’indirizzo che all’uva croatina è dato per giungere alla destinazione più idonea: l’esaltazione dell’intero territorio dell’Oltrepò Pavese.

Quello della croatina è solo un esempio per spiegare come all’interno di questo territorio esista ancora una potenziale “anarchia enologica” che il Consorzio deve necessariamente placare.

L’unica DOCG dell’Oltrepò Pavese riguarda lo Spumante Pinot Nero Rosé che qui è stato “soprannominato” Cruasé.

Un metodo classico di altissimo pregio che raggiunge livelli qualitativi davvero alti ed importanti. L’unico problema legato a questa DOCG è il nome che in modo forse un po’ azzardato è stato dato a questo prodotto.

Se parliamo con i produttori di questo vino – il Cruasé – ci rendiamo subito conto di come questo nomignolo non sia finalizzato all’esaltazione né del territorio né del vino. Cruasè, potrebbe essere apprezzato, se di fini economici si vuol parlare, solo dai grandi produttori con fortissime necessità di esportazione in Paesi dove il nome esotico del prodotto conta più del contenuto.

Un nome che a detta di molti non rappresenta il vero prodotto legato all’Oltrepò di cui non ricorda nemmeno lontanamente il nome. Un metodo classico rosé, un prodotto pregevole che andrebbe valorizzato in modi migliori, con progetti capaci di legare questo spumante in maniera più netta e sincera al territorio dell’Oltrepò Pavese.

Nella produzione di spumanti di altissima qualità come non citare i cugini lombardi della Franciacorta che sono riusciti a fondere il loro ormai apprezzatissimo vino con il territorio dove viene prodotto, oppure ancora quelli del Trento DOC che hanno fatto del loro vino un emblema della loro regione.

Questo è il primo passo, il più importante, che l’Oltrepò Pavese deve compiere unendosi agli sforzi di chi oggi produce un’enologia di pregio e qualità.

Il lavoro è già in opera e le fondamenta sono in costruzione, vale la pena visitare questi luoghi per rendersi conto dell’enorme potenzialità che negli anni è stata espressa in modo altalenante.

La natura ha fatto un dono a questi territori, rendendoli davvero emozionanti e vocati alla viticoltura; resta ai produttori e al Consorzio, la sfida di trasformare in vino tutta la bellezza intrinseca di questi paesaggi rurali.

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