L’export agricolo corre, ma serve una rete made in Italy
Scritto da vinoway | Pubblicato in news
Il Ministro ha parlato di export agricolo, e della necessità di creare una rete Made in Italy, affermando che “il vero problema è la nostra debolezza nella grande distribuzione. Non ci sono catene italiane con una buona presenza all’estero che possano promuovere i nostri prodotti”. “Il calo dei consumi ci deve stimolare a una maggiore attenzione verso le persone in difficoltà. Ma anche a puntare di più sulle esportazioni per compensare la diminuzione della domanda interna”. Nel suo piccolo l’agricoltura è come la Fiat. Anzi, nel suo grande, visto che l’anno scorso l’export agroalimentare ha superato per la prima volta quello dell’auto: 30 miliardi di euro contro 25.
Eppure, ministro Mario Catania, siamo ancora indietro. Due giorni fa, proprio sul Corriere, Dario Di Vico ricordava come la Germania esporti il 27% della sua produzione alimentare, l’Italia solo il 19%. Un altro “spread”.
“E vero, ma rispetto al passato la situazione è migliorata. Negli ultimi dieci anni l’export alimentare del nostro Paese è cresciuto dell’86%, esattamente il doppio del totale delle esportazioni nazionali. E rispetto alla Germania la vera differenza è un’altra”.
Quale?
“Loro producono più di quanto consumano, noi il contrario: consumiamo più di quello che produciamo. Per la Germania l’export è fisiologico, anzi necessario”.
D’accordo, però è il cibo italiano ad essere famoso nel mondo, non quello tedesco. Non sarà anche colpa dei nostri produttori, che non sempre si adeguano al mercato?
“E un’accusa ingiusta. All’estero siamo sommersi dalle imitazioni”. Forse ci limitiamo alla gamma di alta qualità. Ma così è difficile fare grandi numeri, specie in un momento di crisi come questo. “Inseguire la bassa qualità non paga. E non abbiamo i bassi costi di produzione necessari per competere”.
Cosa bisogna fare, allora?
“Il vero problema è la nostra debolezza nella grande distribuzione. Non ci sono catene italiane con una buona presenza all’estero che possano promuovere i nostri prodotti. Auchan, che è francese ma in Italia è diffusa, è in contatto con Auchan Cina per selezionare e promuovere il made in Italy. Siamo ai palliativi”.
E quale può essere la soluzione?
“Alcuni produttori stanno creando direttamente le loro teste di ponte nei grandi mercati stranieri. Depositi, distributori, e tutto ciò che serve per supplire all’assenza di una grande catena. C’è qualcosa a Mosca e a Shangai: siamo ai primi passi ma bisogna insistere. Altrimenti lasciamo campo libero ai falsi e alle imitazioni”.
A proposito, che fine ha fatto il disegno di legge che aveva annunciato per tutelare il made in Italy?
“Molte cose sono state risolte a livello amministrativo o comunitario. Come le norme per l’etichettatura dell’olio d’oliva che adesso prevedono un livello di trasparenza più alto”.
È il cosiddetto italian sounding: prodotti che sembrano italiani senza esserlo, come il Parmesan o la pasta Panzani?
Solo nell’Unione Europea se ne vendono il doppio di quelli davvero made in Italy. “E un problema vero e lo stiamo affrontando. Le faccio un esempio. In molti Paesi è possibile usare il nome Vesuvio per una marca di pasta o una mozzarella. La parola Vesuvio non è un marchio registrato, non viola la legge ma è chiaro che si tratta di una Turbata. Dobbiamo fare pressione sugli altri Paesi per far sì che questo non sia più possibile”.
Così tutto dipende dalla loro buona volontà?
“Sì, purtroppo. Ma alla fine un mercato più trasparente conviene a tutti. Ognuno ha il suo Vesuvio”.
Fonte: Corriere della Sera