Santagiusta metodo classico, perlage abruzzese con sentori di montagna

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Uvaggio pinot nero e chardonnay, 70% e 30% le proporzioni rispettivamente. Vigneti del 2005 allevati a Guyot. Altitudine 676 m.s.l.m. Questi sono gli aspetti salienti della scheda tecnica del Santagiusta metodo classico di Marchesi de’ Cordano, azienda ubicata a Loreto Aprutino (Pe), guidata dal giovane Francesco D’Onofrio coadiuvato dall’enologo Vittorio Festa.

Il Santagiusta (nome della protettrice del paese)  è uno spumante affinato sui lieviti per 18 mesi – a ridosso delle feste era troppa l’ansia di far degustare le prime 3000 bottiglie – ottenuto con uve impiantate da Adriana Tronca nel territorio del “Parco naturale regionale Sirente Velino”.

Adriana è una milanese caparbia, che per motivi di famiglia conosce bene sia l’Abruzzo che le eccellenze vitivinicole della Franciacorta.  Più di dieci anni fa si trasferisce nell’Aquilano, prende possesso dei terreni lasciati dai genitori, mette faticosamente insieme altri appezzamenti abbandonati fino ad arrivare a12 ettari, crea l’azienda Vigna di More nel comune di Tione degli Abruzzi e, in terra di autoctoni come il pecorino, osa impiantare 6 ettari di pinot nero, il kerner, il petit manseng e lo chardonnay; oltre allo zafferano, frutteti e  seminativi. Questa storia ovviamente non è descritta nella retro etichetta, ma ve la racconta Vinoway perché ai vini fatti col cuore c’è sempre un episodio interessante da associare. Nella fattispecie è un racconto che parla di identità territoriale, di sfide e nuovi orizzonti.

“Le uve del Santagiusta crescono a quasi 700 m.s.l.m. in un posto dal silenzio assordante”. Con questo ossimoro l’enologo Festa descrive l’indole dello spumante di alta quota d’Abruzzo, frutto della viticoltura eroica, distante dalla tradizione della zona, ma paradossalmente capace di esaltarla.  Il Santagiusta racconta di un Abruzzo montano, bello, spesso dimenticato e felicemente riportato all’attenzione da Marchesi de’ Cordano e da una donna che ha saputo cogliere nel territorio l’idoneità pedoclimatica alla coltivazione di un vitigno ostico come il pinot nero. “Ho visto il luogo e me ne sono innamorata.

La scelta di trasferirmi non è stata facile, ma ho ritenuto che valesse pena”, racconta Adriana, “mio marito è stato mio complice in questa avventura, lui ha recintato 5 chilometri di proprietà per tenere a bada cinghiali e cervi. Viviamo in simbiosi con la natura”. E questa forte impronta montana incontaminata si riscontra ovviamente nel calice di Santagiusta, che regala un perlage minuto, setoso e persistente, con sentori di crosta di pane, mela verde ed una sfumata nota di erba falciata. In bocca il sorso è accattivante, vellutato e nel contempo molto strutturato, costantemente scandito dalla scia minerale. È uno spumante elegante, versatile per quanto concerne gli abbinamenti e per nessun motivo paragonabile a vini della stessa categoria provenienti da altre regioni con consolidata tradizione spumantistica. Santagiusta parla di un cru abruzzese di montagna, il pendio Lamata, che permette di sperimentare l’allevamento di vitigni inconsueti per la zona. “Non ci interessa scimmiottare nessuno”, chiarisce Francesco D’Onofrio, “volevamo fare uno spumante di qualità, per lo più metodo classico,  in un territorio come l’Abruzzo, tradizionalmente vocato alla vinificazione in rosso. Posso dire che la scommessa è vinta. Le restanti bottiglie di questo spumante che “sa di montagna” sono destinate ad un affinamento di 36 mesi. Ogni bottiglia parla di sacrificio e di sfide.

Il Santagiusta va apprezzato per la sua unicità e senza cadere nella tentazione di fare paragoni. Da cui la scelta di indirizzare il prodotto alla ristorazione di alto profilo e alle enoteche specializzate.”

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